Logo de Iustel
 
 
Sello de Calidad de la Fundación Española para la Ciencia y la TecnologíaDIRECTOR
Antonio Fernández de Buján
Catedrático de Derecho Romano de la Universidad Autónoma de Madrid

SUBDIRECTOR
Juan Miguel Alburquerque
Catedrático de Derecho Romano de la Universidad de Córdoba

Menú de la revista

Conexión a la revista

Conectado como usuario

 

Para la descarga de los artículos en PDF es necesaria suscripción.

Pulse aquí si desea más información sobre cómo contratar las Revistas Generales de Derecho

Puede consultar el texto íntegro del artículo a continuación:

Roma e i suoi giuristi nel pensiero di Nicolás Gómez Dávila
Roma y sus abogados en el pensamiento de Nicolás Gómez Dávila. (RI §416182)  


Rome and his lawyers in the thought of Nicolás Gómez Dávila - Luigi Garofalo

Rievocato per linee essenziali il pensiero reazionario e antimodernista di Nicolás Gómez Dávila, il saggio dà conto della sua riflessione dogmatica intorno al concetto di diritto, alla nozione di giustizia e alla figura dello Stato, per poi soffermarsi sulle opinioni dell’autore rispetto al nostro passato e in particolare in merito all’antichità romana e ai giuristi attivi nel periodo del principato.
Después de una visión general recordando el pensamiento reaccionario y anti -modernista de Nicolás Gómez Dávila, el ensayo da cuenta de su reflexión dogmática en el concepto de la ley , la noción de la justicia y la figura del estado, y luego moradores de las opiniones del autor con respecto a nuestro pasado y sobre todo sobre la antigüedad romana y los abogados que trabajan en el periodo del principado.

I.- Introducción. II.- Etapa republicana. 1.- Jurisconsulto y orador. 2.- Gratuidad del patrocinio republicano. III.- Etapa clásica. 1.- Desarrollo de la profesión forense. 2.- Requisitos para el ejercicio de la abogacía. 3.- Los honorarios de los abogados. 3.1.- Regulación legal de los honorarios. 3.2.- Pactos remuneratorios ilícitos. IV.- Etapas postclásica y justinianea.

Palabras clave: Nicolás Gómez Dávila; pensiero reazionario e antimodernista; diritto; giustizia; Stato; storia; antichità romana; giuristi del principato.
Nicolás Gómez Dávila
; El pensamiento reaccionario y anti -modernista; la ley; justicia; Estado; la historia; antigüedades romanas; juristas del principado.;

After an overview recalling Nicolás Gómez Dávila’s reactionary and anti-modernist thought, the essay takes into account his dogmatic meditation on the concept of law, the idea of justice and the State-feature. Then, it goes through the author’s opinions about our past and above all about Roman antiquity and jurists operating during the Principate age.

Keywords: Nicolás Gómez Dávila; reactionary and anti-modernist thought; law; justice; State; history; Roman antiquity; jurists of the Principate.;

ROMA E I SUOI GIURISTI NEL PENSIERO DI NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA

Por

LUIGI GAROFALO

Università di Padova

[email protected]

Revista General de Derecho Romano 24 (2015)

RIASSUNTO: Rievocato per linee essenziali il pensiero reazionario e antimodernista di Nicolás Gómez Dávila, il saggio dà conto della sua riflessione dogmatica intorno al concetto di diritto, alla nozione di giustizia e alla figura dello Stato, per poi soffermarsi sulle opinioni dell’autore rispetto al nostro passato e in particolare in merito all’antichità romana e ai giuristi attivi nel periodo del principato.

PAROLE CHIAVE: Nicolás Gómez Dávila; pensiero reazionario e antimodernista; diritto; giustizia; Stato; storia; antichità romana; giuristi del principato.

ROMA Y SUS ABOGADOS EN EL PENSAMIENTO DE NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA

RESUMEN: Después de una visión general recordando el pensamiento reaccionario y anti -modernista de Nicolás Gómez Dávila, el ensayo da cuenta de su reflexión dogmática en el concepto de la ley , la noción de la justicia y la figura del estado, y luego moradores de las opiniones del autor con respecto a nuestro pasado y sobre todo sobre la antigüedad romana y los abogados que trabajan en el periodo del principado.

PALABRAS CLAVE: Nicolás Gómez Dávila; El pensamiento reaccionario y anti -modernista ; la ley; justicia ; Estado ; la historia ; antigüedades romanas ; juristas del principado.

ROME AND HIS LAWYERS IN THE THOUGHT OF NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA

ABSTRACT: After an overview recalling Nicolás Gómez Dávila’s reactionary and anti-modernist thought, the essay takes into account his dogmatic meditation on the concept of law, the idea of justice and the State-feature. Then, it goes through the author’s opinions about our past and above all about Roman antiquity and jurists operating during the Principate age.

KEYWORDS: Nicolás Gómez Dávila; reactionary and anti-modernist thought ; law; justice; State; history; Roman antiquity; jurists of the Principate.

1. Negli Escolios, cinque volumi pubblicati a Bogotá tra il 1977 e il 1992(1) in cui si rincorrono disordinatamente annotazioni sintetiche e sentenziose su argomenti disparati, il colombiano Nicolás Gómez Dávila, nato nel 1913 e morto nel 1994(2), esprime il pensiero di un reazionario(3), di un antimodernista(4): nemmeno di un conservatore(5), il quale, secondo l’autore, è pur sempre circondato da qualcosa degno di essere salvaguardato(6), contrariamente a lui, sicuro di vivere in un’epoca nella quale non esiste nulla di tale(7) e nessuno per cui lottare, ma soltanto qualcuno contro cui battersi(8), almeno per evitare che <<los derechos del alma>> muoiano per prescrizione(9).

Convinzione del nostro è che <<l’umanità sia caduta nella storia moderna come un animale cade in una trappola>>(10), essenzialmente per il cooperare di tre serie causali tra loro indipendenti: <<l’espansione demografica, la propaganda democratica, la rivoluzione industriale>>(11); e inoltre che l’umanità stessa, la quale oggi ha malauguratamente sostituito <<il mito di una passata età dell’oro con quello di una futura età della plastica>>(12), da quando è inciampata nella modernità – e si è divisa tra chi <<crede in Dio>> e chi <<si crede dio>>(13) – distrugga <<più quando costruisce che quando distrugge>>(14) e risolva <<i suoi problemi con soluzioni ancora peggiori dei problemi>>(15).

Del resto, osserva ancora Gómez Dávila, <<i Vangeli e il Manifesto comunista sbiadiscono; il futuro del mondo appartiene alla Coca-Cola e alla pornografia>>(16). E così si avviano alla definitiva vittoria sull’uomo – o, meglio, sull’animale che <<immagina di essere uomo>>(17) ed è il probabile Anticristo(18) – i suoi tre nemici più insidiosi: <<il demonio, lo Stato e la tecnica>>(19). I quali, spiega Volpi(20), nella visione del sudamericano equivalgono, rispettivamente, alla perversione della trascendenza, all’istituzione la cui crescita comporta la proporzionale decrescita dell’individuo e alla micidiale tentazione del possibile.

Avversario implacabile delle <<ideologie ottimiste>>, che spingono a fucilare inizialmente per amore, proponendosi di sanare l’umanità, e dopo per rancore, in quanto l’umanità risulta incurabile(21), e comunque ostile a tutti i programmi che fomentano ideali, poiché <<ogni individuo con ‘ideali’ è un potenziale assassino>>(22), Gómez Dávila ha dei bersagli contro cui scatena sovente la penna: tra questi, in prima linea, <<l’entusiasmo del progressista, gli argomenti del democratico, le dimostrazioni del materialista>>(23), il feticcio della libertà(24) e l’infelice idea dell’eguaglianza, che sbriciola ogni pretesa soggettiva alla diversità(25). <<Assillo dell’era moderna, perché la salute ossessiona solo l’ammalato>>(26), e <<sogno di schiavi>>, dato che <<l’uomo libero sa che ha bisogno di riparo, protezione, aiuto>>(27), la libertà di oggi per l’autore si risolve in realtà, al pari della tirannia, in uno <<stato di servitù>>: servitù <<clandestina>> per giunta, se si tiene conto che a opprimere l’individuo è <<l’opinione>>, e non invece <<manifesta>>, come nel caso della tirannia, in cui è <<la forza>> a sovrastare la persona(28). Quanto all’eguaglianza, il colombiano vi scorge un paradigma sviluppatosi a dispetto dell’intimo sentire degli uomini – in verità più eguali di quello che pensano e meno di quello che dicono(29), pronti comunque a inventare la diseguaglianza, per uccidere la noia, se nascessero eguali(30) – e nonostante sia evidente che <<le gerarchie sono celesti>>, addirittura che <<c’è una gerarchia di perfezioni>>, pur essendo perfetta ogni perfezione(31), mentre tutti sono eguali all’inferno(32). Così come lo sono davanti alla morte, unico evento dell’esistenza terrena, inesorabile <<officina di gerarchie>>, a rispettare i dettami della democrazia(33).

Quest’ultimo, d’altro canto, è un termine con il quale, a parere di Gómez Dávila, si designa <<più una perversione metafisica che un fatto politico>>(34) (laddove di <<perversione del senso critico>>, secondo lui, si dovrebbe parlare con riferimento alla <<passione egualitaria>>, che maschera l’<<atrofia della facoltà di distinguere>>(35)). Propugnare la democrazia è infatti per il sudamericano, come mette in luce Volpi(36), pretendere di calare sulla scena del mondo un’impraticabile <<teologia dell’uomo-dio, in quanto essa>>, la democrazia cioè, <<assume l’uomo quale Dio, derivando da questo principio i suoi comportamenti, le sue istituzioni e le sue realizzazioni>>(37). Se l’unico fine dell’uomo è l’uomo, rileva al riguardo l’autore, ne discende <<una vana reciprocità, come il mutuo riflettersi di due specchi vuoti>>(38). Bisogna perciò sottrarsi alla perniciosa malia degli apostoli della democrazia, portatrice di un relativismo assiologico fondato sull’orgoglio(39) e opposto all’oggettività valoriale della reazione(40). Compito che agli occhi del nostro appare agevole, quando si sappia che essi <<descrivono un passato che non è mai esistito e predicano un futuro che mai esisterà(41)>>; coltivano un programma, scandito da tre celebri parole – liberté, égalité, fraternité –, che ci regalerà, dopo la <<fase liberale, alla base della società borghese>>, e la <<fase ugualitaria, alla base della società sovietica>>, la <<fase fraterna, a cui preludono i drogati che copulano in ammucchiate collettive>>(42); danno vita a ordinamenti che si distinguono per una singolare caratteristica: quanto più gravi sono i problemi che vi emergono, tanto maggiore è il numero di inetti chiamati a risolverli(43); e comunque a regimi che versano in uno stato di perenne allarme, protesi come sono a eludere le implicazioni concrete della dottrina su cui risultano fondati(44) (nel che è forse ravvisabile un accenno, fatto da un Gómez Dávila antesignano di un approfondimento teorico che ora impegna filosofi di fama, alle norme che, in presenza di certe circostanze indicanti un pericolo collettivo reale o supposto tale, consentono ai detentori del potere di governo di operare nella sospensione totale o parziale delle leggi attributive di diritti soggettivi fondamentali(45)); coniano organizzazioni sociali che continuano a imbrattarsi di massacri, i quali, diversamente da quelli antichi, riconducibili <<all’illogicità dell’uomo>>, appartengono <<alla logica del sistema>>(46); e che riservano la cicuta al reazionario(47).

<<Ragione, progresso, giustizia>>, e cioè i cardini attorno ai quali ruota la democrazia, nel cui giardino per Gómez Dávila riescono a fiorire solo retorica(48), frustrazione(49), invidia(50) e rozzezza(51), gli appaiono quindi come <<le tre virtù teologali dello stupido>>(52): ossia di colui che non ha o non esercita l’intelligenza, la quale <<è spontaneamente aristocratica, poiché è la facoltà di distinguere differenze e di fissare ranghi>>(53). Filtro capace di trasformare il mondo in qualcosa d’interessante(54), per il colombiano unicamente grazie a essa – sempre pericolosamente attratta dall’imbecillità, come la cosa corporea lo è dal centro della terra(55) – si può esistere anziché limitarsi a vivere, com’è dei più(56), rifuggendo dalla spasmodica ricerca di soluzioni ai veri problemi dell’uomo e perseguendo invece la piena consapevolezza dei medesimi(57), con l’appoggio della filosofia(58).

2. Anche dal versante tecnico dello stretto diritto, rispetto al quale davvero elevata era la competenza di Gómez Dávila, la democrazia pare a lui biasimevole: soprattutto per una ragione che discende dal suo modo di concepire il giuridico, sicché, per meglio intenderla, di questo conviene dare subito conto, attingendo a un saggio che il sudamericano redige verso il 1970 e pubblica, sotto il titolo De iure, a Bogotá nel 1988, all’interno del fascicolo n. 542 della Revista del Colegio Mayor de Nuestra Señora del Rosario.

In esso l’autore, optando per la scrittura piana e lineare tipica della trattazione organica di alto impegno dogmatico, ripropone per linee essenziali l’antico e mai sopito dibattito intorno al quid est ius(59), per poi fissare un punto di partenza della massima importanza: il diritto, come la giustizia e lo Stato, è un’entità appartenente al giuridico, una distinta articolazione del medesimo, considerato, a motivo dell’assoluta autonomia del suo ambito, quale categoria irriducibile dello spirito o struttura prima dell’universo, al pari del logico(60). E quindi sviluppa così il ragionamento.

Se il logico è dato nell’atto del soggetto che conosce oggetti, il giuridico è dato nell’atto del soggetto che riconosce altri soggetti. E i due atti esauriscono l’elenco degli atti possibili per il soggetto. Costui, infatti, incontra solamente oggetti e altri soggetti, per cui è in grado di instaurare con loro non più che due tipi di <<relaciones formales>>. Riguardo ai primi, egli può unicamente l’atto teorico e solitario del conoscerli, ovvero l’atto logico; rispetto ai secondi, può anche l’atto pratico e solidale del riconoscerli, ossia l’atto giuridico. Questo, dunque, presuppone che il soggetto non si limiti a pensare gli altri soggetti, poiché, trattandoli come oggetti specifici d’interesse gnoseologico, rimarrebbe nell’orbita dell’atto logico, ma entri in rapporto con loro concretamente, vedendoli come individui con cui condividere la funzione logica che anch’essi hanno, in vista della costruzione condivisa di un sistema.

Pure il logico, come appunto il giuridico, si risolve in un sistema: più precisamente, in un sistema formale assiomatico. Però nel logico ciò che è assiomatico proviene da un solo soggetto; nel giuridico è posto da due o più soggetti distinti. Quindi <<lo lógico es axioma postulado; lo jurídico es axioma convenido>>, con la conseguenza che <<lo jurídico es convenio>>, ossia <<accordo>>.

In quanto sistema formale, il logico pretende la coerenza del soggetto con se stesso. Egli è pertanto tenuto a rifiutare quello che risulta in contrasto con l’assioma postulato, dal momento che accettarlo equivarrebbe a non aver postulato alcunché. Mentre non riveste importanza il contenuto dell’assioma, che potrebbe consistere in una verità incontestabile, in un pensiero divino, in un’osservazione sperimentale, in una supposizione gratuita o in altro ancora: se la volontà è sovrana al riguardo, <<en cambio el raciocinio es coherencia estricta con el postulado, inviolable lealtad del sujeto con la postulación asumida>>. Similmente il giuridico, essendo un sistema formale, esige la coerenza tra loro dei soggetti che vi hanno dato vita. Essi sono perciò vincolati a rigettare quanto confligge con l’assioma convenuto, perché approvarlo significherebbe non aver convenuto alcunché. Quale sia poi la sostanza dell’accordo, non conta, potendo constare di una norma assoluta, di un ordine divino, di un precetto tecnico, di una fantasia capricciosa e via dicendo: anche in questo caso la volontà, che qui sarà volontà conforme di due o più soggetti, è sovrana, fermo restando che <<la juridicidad es coherencia estricta con lo convenido, inviolable lealtad de los sujetos con el convenio solidariamente adoptado>>. Sinteticamente, quindi, <<el convenio es obligación de respetar lo convenido>>.

Naturalmente il sistema logico non può tollerare al suo interno regole che permettano al soggetto di modificare a suo arbitrio ciò che ha postulato assiomaticamente. Del pari, il sistema giuridico rifugge da regole che consentano ai soggetti di base o a taluni di essi di cambiare a propria individuale discrezione ciò che la pluralità ha convenuto assiomaticamente. E invero, <<postular la alterabilidad libre de los términos postulados es anular la postulación; y convenir la alterabilidad libre de los términos convenidos es anular el convenio>>.

Per mutare i tratti dell’uno o dell’altro sistema, è dunque necessario abolire quello vigente <<y postular o convenir uno nuevo>>. Rispetto al sistema logico, basterà la decisione volontaria del singolo soggetto; quanto invece al sistema giuridico, occorrerà il consenso di tutti i soggetti implicativi. Né sarebbe ammissibile un patto tra questi stessi soggetti in virtù del quale uno o più d’uno di loro possa, da solo o con il concorso degli altri così individuati, e dunque senza l’apporto della totalità, correggere la portata dell’accordo o abrogarlo o sostituirlo con uno diverso. Vale infatti sul punto il seguente principio: <<el convenio es obligación de respetar el convenio>>.

Vista in purezza, la categoria del giuridico si scioglie allora in una definizione dichiarativa e in due proposizioni tautologiche: il giuridico è accordo (<<lo jurídico es convenio>>); l’accordo è obbligo di rispettare quanto concordato (<<el convenio es obligación de respetar lo convenido>>); l’accordo è obbligo di rispettare l’accordo (<<el convenio es obligación de respetar el convenio>>).

In tali assunti, a ben vedere, risiedono le tre regole costitutive di una corretta costruzione nel campo del giuridico. La prima regge e rende visibile proprio il giuridico; la seconda sostiene e rischiara il diritto privato; la terza dà fondamento e luce al diritto pubblico(61).

Svelata la struttura del giuridico, le principali manifestazioni di questo ne escono irraggiate: il diritto è la regola di condotta che nasce dall’accordo; la giustizia è l’osservanza di siffatta regola; lo Stato è la regola di diritto che assicura tale osservanza(62).

Al molto sotteso alle tre scheletriche qualificazioni Gómez Dávila riserva poi una minuziosa disamina, che ha inizio con la distinzione tra diritto oggettivo, dato dalla regola di condotta in sé considerata, e diritto soggettivo, visto nella pretesa che essa fonda, per proseguire con l’espunzione del diritto naturale dall’area del diritto, in quanto occupata in via esclusiva, per necessità logica, dal diritto positivo.

È evidente, scrive a quest’ultimo riguardo l’autore, <<que todo derecho es derecho positivo, porque suponer un derecho natural anterior a la regla de derecho es una suposición contradictoria con la definición del derecho mismo. Todo derecho es positivo porque la regla nace de un convenio, es decir: de un acto práctico positivamente realizado>>.

Né si potrebbe immaginare che la validità della regola di diritto dipenda dalla consonanza di questa <<con las normas angélicas de un derecho natural>>, essendo invece assicurata dal carattere giuridico proprio della regola stessa, ossia <<de su caracter de axioma convenido en el encuentro de … sujetos distintos>>. In termini più generali, va perentoriamente negato che <<los motivos del convenio>> o <<las conductas convenidas>> o <<normas eticas>> o anche supposti <<principios inmortales>> rilevino ai fini della validità della regola di diritto, atteso che essa si collega soltanto alla giuridicità della regola, che integra una qualità formale e va perciò valutata secondo un omogeneo parametro di giudizio, scevro di ogni risvolto sostanziale. Un sindacato sulla validità del contenuto della regola di diritto o, se si preferisce dire così, sulla validità materiale della regola non è peraltro fuori del plausibile, ma potrebbe aversi solo in presenza di una regola di diritto che, da dentro il sistema giuridico di riferimento, lo preveda(63).

Se tutto il diritto è positivo, osserva ancora il colombiano, non è però tale il diritto in sé. Postulando l’accordo e risolvendosi in esso, il giuridico non può infatti costituirne l’oggetto, che sarà sempre dato da una regola sostanziale appartenente al diritto e mai da una regola che lo definisca formalmente.

Peraltro, non tutto il diritto positivo è necessariamente diritto: rientra invero nel primo e non nel secondo la norma <<compulsiva>>, concepita cioè come vincolante, per esempio perché introdotta da una legge o contenuta in un codice, carente del requisito della giuridicità, in quanto non ricollegabile a un accordo. Quindi rimane estranea al diritto, anche se non a quello positivo, la regola dettata da una volontà qualificata come sovrana promanante da un individuo o da un gruppo, ma comunque non da tutti i consociati. Pur essendo pacifico che, nella prospettiva del giuridico, solo la volontà unanime di costoro può considerasi sovrana, si deve tuttavia concedere che quanto aggrada al principe ha vigore di legge: nondimeno il suo atto d’imperio non accede al giuridico e difetta pertanto dell’obbligatorietà che a questo si correla. E allora, lungi dal violare una fonte del diritto, chi lo trasgredisce sconfigge, grazie all’astuzia o alla forza, <<una prepotencia usurpada>>. Né, coerentemente, vale a conferire il crisma della giuridicità al prodotto di una volontà che non sia quella della collettività il fatto che esso sia il frutto di una volontà, definita come sovrana, attribuita, ancorché generalmente, a un monarca di diritto divino o a un’assemblea di rappresentanti del popolo – come avviene appunto nella democrazia – o a una nazione intera <<salvo una sola voz solitaria>>(64).

Poiché il giuridico è dato dall’accordo e questo comporta l’obbligo di rispettare quanto concordato, nota ulteriormente Gómez Dávila, è ovvio che la regola di diritto, che discende dall’accordo, è presidiata dall’inviolabilità, che si comunica ai diritti soggettivi che essa genera.

È comunque, quello dell’intangibilità, un carattere della regola di diritto che contribuisce alla <<seguridad jurídica del derecho positivo>>: verificabile empiricamente, essa comunque cresce anche in funzione <<de la proliferación de reglas y de la progresión de individuos ligados por las reglas en el espacio y en el tiempo>>. A suggellare, dunque, che <<el derecho no es estatuto intemporal de normas, ni acervo caprichoso de impersonales mandatos, sino acumulación histórica de acuerdos en el tiempo, convenidos entre sujetos que se reconocen recíprocamente como tales>>(65).

Ma se guardiamo alla vita concreta degli uomini, puntualizza Gómez Dávila, accordi di questo genere, ove pensati formalmente, sono introvabili: gli individui, infatti, non pattuiscono in via sacramentale le regole di diritto, ma vi danno il loro consenso, secondo lo schema del diritto consuetudinario. Proprio in questo, intessuto di norme eziologicamente riconducibili alla volontà di tutti i consociati, risiede dunque il diritto che è autenticamente tale ovvero, con espressione equivalente, il legittimo diritto positivo.

In altri termini, <<la regla de derecho que emana de un convenio explícito, acordado entre individuos lúcidamente ciertos del propósito que abrigan, del importe jurídico del acto que ejecutan, y de las consecuencias que derivan, es una pura construcción teórica>>: la via attraverso la quale la regola di diritto affiora, si consolida e resiste nel tempo è in realtà quella del consenso prestatole dagli uomini che si avvicendano negli anni. Essi dunque non concordano tra loro quella regola, ma vi acconsentono. Per questo si può dire che il consenso delle generazioni <<es la forma que asume, en la concreta impureza de la historia, la impoluta exigencia del convenio>>.

Riassuntivamente è allora da affermare che il legittimo diritto positivo non consiste nell’impossibile prodotto di un accordo esplicito e solenne, ma si risolve nell’accumulazione storica di regole sostenute dal consenso quotidiano e implicito degli uomini. Questi, infatti, mai si riuniscono in un astratto e mitico foro per pattuire il diritto destinato a reggerli, ma perpetuamente si incontrano dentro al diritto che ne disciplina i comportamenti, come dentro alla lingua che parlano(66).

Quanto alla giustizia, Gómez Dávila vi torna per ribadire che essa indica semplicemente l’osservanza della regola di diritto, fondando la contrapposizione tra l’atto giusto, ossia conforme alla regola, e l’atto ingiusto, che vi disobbedisce; e per affrancarla da ogni significato eccedente quello che esprime la sua definizione.

Egli ha così modo di precisare che la giustizia non rappresenta lo scopo mistico del diritto, posto che il fine di questo è il diritto stesso, né rimanda a una tavola trascendente di diritti soggettivi: consiste invece nell’adempimento dell’<<obligación suprema de ser fieles al convenio concluido y a los derechos engendrados>> e dunque, secondo l’ammaestramento di Ulpiano conservato in D. 1.1.10 pr. (dove si legge che iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi)(67), nel dare a ciascuno il suo e, più in generale, nel rispettare i diritti degli altri, siccome configurati nel sistema giuridico preso in considerazione.

Appunto per questo, aggiunge l’autore, è altresì da scartare qualsiasi interferenza tra la giustizia e le norme di tipo etico. I principi morali, in effetti, non danno né tolgono validità giuridica alle regole esistenti: sono al più invocabili per giustificare, dall’esterno della sfera del diritto, la richiesta di trasformazione delle regole in vita o di immissione di regole nuove, che può trovare soddisfazione solo attraverso un ulteriore <<acuerdo de voluntades>> dell’insieme dei consorziati(68).

Ampliando il cenno che aveva fatto allo Stato, Gómez Dávila osserva poi che questo, in quanto apparato allestito dal diritto allo scopo primo di assicurare, mediante la forza, l’osservanza delle regole di cui consta, è, fondamentalmente, <<un tribunal y un juez>>(69).

Strumento rilevante anche sul piano politico e sociologico e tuttavia di conio squisitamente giuridico, appunto perché è il diritto a forgiarlo e ad affidargli anzitutto il compito della difesa del diritto stesso dagli attacchi del nemico straniero e del trasgressore intestino, lo Stato, afferma ancora l’autore, <<tanto en sus concreciones embrionarias como en sus articolaciones adultas>>, realizza la propria <<virtualidad congénita>> soltanto quando agisce quale esecutore della <<voluntad jurídica>> di una società. E così agisce allorché capta le regole di diritto e le ripropone, formulate in modo tecnicamente adeguato e disposte in ossequio alle esigenze di ordine sistematico ben note alla scienza giuridica, nelle proprie fonti e dunque, principalmente, nelle leggi; inoltre, allorché adotta provvedimenti di natura amministrativa rispettosi delle regole di diritto; ma soprattutto allorché emette, attraverso i suoi organi giudiziari, decisioni che applicano quelle regole e mettono fine alle liti insorte tra privati o tra privati e ramificazioni pubbliche, pure dello Stato.

Fondatamente, quindi, il colombiano trae da tali premesse una conclusione importante in merito ai tre poteri che il costituzionalismo classico assegna allo Stato: solo quello giudiziario è realmente costitutivo, poiché quello esecutivo vi risulta subordinato, tanto che ne sconta perfino gli errori, e quello legislativo nemmeno esiste, giacché lo Stato trova e non inventa il diritto.

In questo, e perciò nell’<<acuerdo concluido entre las voluntades jurídicamente libres de individuos distintos>> donde discende, risiede effettivamente la sovranità, di cui sono invece sforniti del tutto lo Stato, chi lo governa, il parlamento, il partito maggioritario, il mistico volere del popolo, la ragione dell’uomo e la coscienza umana.

Proprio dalla sovranità del diritto, del resto, deriva l’autorità delle leggi e delle altre fonti che lo contengono, non essendo pensabile che essa riposi su una supposta autorità dello Stato nel campo della produzione del diritto, in realtà insussistente. In tale ambito, infatti, lo Stato, come si è visto, gode solamente di una <<capacidad jurisprudencial>>, di cui deve servirsi per dotare della forma migliore e per <<metodizar>> le regole del giuridico che è vincolato a recepire nei propri atti a valenza normativa: tra le quali, ovviamente, quelle relative all’istituzione dello Stato stesso, su cui poggia la sua autorità, che si esplica eminentemente a livello giudiziario. Così da potersi affermare che <<el simbolo de la potestad más alta es el roble legendario y su emblema no es el cetro, sino la espada de justicia>>(70).

Escluso che la legittimità dello Stato sia valutabile in base ad argomentazioni di ordine etico, sociale o politico, prosegue Gómez Dávila, è dunque unicamente la categoria del giuridico che riesce a illuminare quando ricorra. E alla sua stregua, giova dire riassuntivamente, <<todo Estado que resulte del acuerdo concluido entre quienes gobierna, y que administre el derecho que estos reconocen, es jurídicamente válido>>.

Nel corso dei millenni, d’altro canto, si sono avute molteplici compagini rispondenti ai due requisiti indicati e quindi riconducibili alla figura cui si attaglia la denominazione di Stato di diritto. Addirittura la storia si può vedere come <<el antifonario policromo de sus variaciones melódicas>>: e invero, <<el bastón de mando de una horda magdaleniense no es menos legítimo que la tiara pérsica, los fasces consulares, la cola equina de los kanes mongoles o el orbe áureo de los carolingios>>.

Al di fuori della circonferenza dello Stato di diritto restano invece le comunità, sovente replicatesi nel tempo quali proiezioni dello Stato <<absolutista>>, in cui è ravvisabile la sottomissione dei loro membri, pur accettata plebiscitariamente, all’arbitrio incondizionato di una volontà sovrana, sia essa di un individuo o di un gruppo più o meno ristretto. A precluderne la sussunzione entro l’area dello Stato giuridicamente valido è proprio la struttura del giuridico, la quale consta di una regola – l’accordo è obbligo di rispettare l’accordo, nella formulazione incontrata addietro – che <<prohibe convenir contra el convenio y que rige la construcción del derecho público>>: e dunque non ammette un patto in forza del quale l’accordo iniziale possa essere inciso da un accordo posteriore a base soggettiva ridotta, anche se non drasticamente.

Davanti a questa regola, la dottrina democratica, a detta del colombiano l’invenzione più sottile per giustificare la legittimità dello Stato <<absolutista>>, si dimostra per lui fallace. E proprio per la ragione cui si alludeva all’inizio del paragrafo, chiaritasi nel seguito e ora ben comprensibile. Quella dottrina correttamente proclama che uno Stato giuridicamente valido sorge solo in presenza di un accordo di volontà fra gli interessati, reale o metaforico che sia. Anzi, per mezzo dei suoi più illustri sostenitori, opportunamente precisa che questo accordo, il ben noto contratto sociale, è, per definizione, concluso unanimemente. Ma poi aggiunge, senza censurare il fatto, che in occasione del <<primer pacto jurídico>> gli stipulanti ancora unanimemente convengono <<la transferencia de la soberanía jurídica a las futuras mayorías votantes>>: ovvero convengono che successivamente all’accordo originario la volontà della semplice maggioranza equivalga alla volontà conforme di tutti gli individui che compongono il popolo. Come se ciò non avvenisse in spregio alla regola che vieta di pattuire contro l’accordo.

Ingannevole, in particolare, è quanto asseriscono i fautori della tesi democratica, ossia che là dove essa impera <<lo que complace al pueblo, necesariamente, habet vigorem legis>>. Il popolo, come appena constatato, risulta mal invocato da loro, dovendo figurare al suo posto la misera maggioranza. Né è accettabile che l’uno ceda il suo nome all’altra, permettendole così di adottare decisioni con cui soppiantare l’accordo primigenio. Salvo appunto ammettere quello che la categoria del giuridico non consente: e cioè che <<entre dos sujetos de derecho se pueda convenir que uno de ellos será libre de alterar a su arbitrio el convenio, o de abrogarlo a su arbitrio, o de convenir a su arbitrio solo consigo mismo los términos de un convenio nuevo>>(71).

3. Anche negli Escolios, peraltro, la teoria democratica viene aspramente criticata sotto il profilo squisitamente giuridico. Essa, vi si dice, si appropria dell’idea del contratto sociale avvalendosi del <<sofisma del suffragio>>: ma <<donde se suponga, en efecto, que la mayoría equivale a la totalidad, la idea de consenso se adultera en coerción totalitaria>>(72). Tipico di quella teoria, d’altro canto, è costruire il totalitarismo(73) – che appunto altro non è se non la realtà empirica della <<volontà generale>>(74), a sua volta <<finzione che consente al democratico di sostenere che per inchinarsi di fronte a una maggioranza c’è un’altra ragione oltre la semplice paura>>(75) – con attrezzi liberali(76). Non si deve invero dimenticare, ammonisce un frammento ulteriore, che <<obbedire alla legge che dipende dalla volontà maggioritaria è obbedire al capriccio>>, mentre <<obbedire a un uomo che riconosce norme oggettive>>, risultanti cioè dalla volontà di tutti manifestata nell’incedere degli anni attraverso condotte adeguate, <<è obbedire alla legge>>(77).

Ma non mancano, sempre nell’opera principale del colombiano, altri strali contro la dottrina democratica che involgono in vario modo la sfera del diritto. Essi ora enfatizzano, perché ritenuto clamorosamente patologico, il <<postulado básico>> della dottrina in questione, visto nella torsione della legge a <<coscienza del cittadino>>(78), con <<desprecio>>, specifica Francisco Cuena Boy(79), <<de la autonomía moral de cada individuo>>; ora richiamano e ovviamente deplorano l’uso arbitrario e manipolativo della legge – <<la democracia es el único régimen político deliberadamente establecido para violar el derecho a ley armada>>, giunge a dire il nostro(80) –, considerandolo l’autentico contrassegno del credo democratico in luogo dell’<<elección del gobernante>>(81) (per cui viene escluso che le <<llamadas democracias campesinas>> fossero veramente ‘democracias’, posto che <<el pueblo elegía allí al gobernante, pero el derecho consuetudinario regía>>(82)); ora guardano con rammarico al mare di norme superflue e mal concepite, che finisce per sommergere lo Stato(83) – sventuratamente ipertrofico(84) –, voluto dall’indirizzo democratico, per il quale <<una regla de derecho … no tiene validez jurídica superior a la de una disposición de tránsito>>(85); ora danno spazio al <<sentimentalismo democratico>>, che involgarisce l’anima popolare e ne causa la predisposizione al crimine, perché i suoi emollienti la rendono assetata di sangue(86); ora portano sulla scena il potere giudiziale, in quanto per mezzo di questo <<las democracias tiranizan preferentemente>>(87); ora ironizzano sui <<tribunali democratici>>, che <<non fanno tremare il colpevole, ma l’accusato>>(88), e sulla libertà di stampa, prima esigenza della democrazia nascente e prima vittima della democrazia matura(89).

Significative sono altresì le riflessioni, di nuovo rintracciabili negli Escolios, concernenti la costituzione dello Stato, concepita quale legge che ripropone, schematizzata secondo un linguaggio tecnico, l’intesa idonea a sostenere l’istituzione e di questa disciplina, per linee generali, la vita. In esse, oltre a essere apprezzata la costituzione persistente nel tempo, viene considerata con favore quella affetta da <<incoerenza>>, in quanto, non lasciando tutto in mano allo Stato, è garanzia di libertà(90); viene inoltre giudicata corretta la costituzione nella quale <<el sector público es meramente sector público del sector privado>> e non quella in cui è contemplato solo il <<sector público>> o parallelamente questo e il <<sector privado>>(91); e infine viene guardata con favore la costituzione che sancisce il regime monarchico, unico al quale si attaglia uno statuto così importante – comunque incapace di sollevarsi al di sopra del grottesco e del rozzo, come ogni atto fondamentale di qualsivoglia collettività umana, fatta eccezione per la regola benedettina(92) –, in quanto <<dove la società si governa da sé, o dove governa un autocrate, la costituzione manca di un custode che la difenda da capricci elettorali o da capricci cesaristi>>(93); mentre viene disapprovata la costituzione su cui si incardina qualsiasi ordinamento democratico, essendo essa in ogni caso <<un attentato vergognoso contro la sovranità del popolo>>(94).

Pure la deriva burocratica dello Stato a base democratica, risparmiata nel De iure, è stigmatizzata negli Escolios. Già con più ampio riferimento a tutta la società moderna, vi si afferma che essa tende a cambiare sistematicamente le autorità sociali con autorità politiche, ossia <<las instancias civilizadoras por cargos administrativos>>(95). Poi, più specificamente, si osserva che <<la burocrazia è uno di quei mezzi della democrazia che si convertono in uno dei suoi fini>>(96); e ancora, che l’alternativa democratica tra una <<burocracia opresora>> e una <<plutocracia repugnante>> è in fase di superamento, poiché va imponendosi un unico modello sintetico: quello della <<burocracia opulenta>>, simultaneamente <<repugnante y opresora>>(97). Il fenomeno, peraltro, è qualificato come naturale: essendo sempre più complesse le funzioni che lo Stato assume su di sé, è inevitabile che la sorte dei cittadini dipenda da <<funzionari crescentemente subalterni>>(98), che formano una classe costosa e certo non alta(99), in grado di spaventare non perché paralizzi, ma in quanto autenticamente efficiente(100). Essa, inoltre, tende a porsi come un partito autonomo(101), che si serve dello Stato, come se questo fosse uno strumento suo(102). In un contesto simile, è allora fisiologico che le <<decisioni dispotiche>> formalmente dello Stato siano in realtà prese da un <<burócrata anónimo, subalterno, pusilánime, y probablemente cornudo>>(103). Storicamente, comunque, <<le burocrazie non succedono casualmente alle rivoluzioni>>, essendo piuttosto queste <<los partos sangrientos de las burocracias>>(104).

Al Gómez Dávila degli Escolios appare inoltre spropositato il peso della polizia all’interno dell’ordinamento statale democratico e, più in generale, moderno. Essa agisce infatti quale tutrice in via esclusiva dell’ordine, avendo il compito di vigilare sull’osservanza dei regolamenti dettati in materia, considerati quali unici mezzi a disposizione per garantire l’armonia sociale(105): non bastasse, la sua pervasività continua ad aumentare, perché si mira a renderla presente, quasi fosse Dio, a tutti gli atti dell’uomo(106). Nei regimi di sinistra, inoltre, è anche chiamata a infondere nei singoli entusiasmo(107) e a procurare quell’unanimità di vedute che qualcuno erroneamente pensa di poter riferire all’assenza di classi(108). Il destino della polizia, segnato dai quei <<fanatici della libertà>> che finiscono come <<teorici>> della polizia stessa – <<la dottrina di Fichte, per esempio, culmina in una teoria del passaporto>> (109)–, è dunque quello di essere <<el único nexo espiritual entre los íncolas de la urbe moderna>>(110). E così si allunga la distanza tra i sistemi d’oggi e quelli a struttura gerarchica del passato, i cui componenti, immuni da una polizia che capillarmente riflette il volto di un potere dispotico, forse già sapevano che <<sólo jerarquizando podemos limitar el imperialismo de la idea y el absolutismo del poder>>(111); e anche che al dissolversi delle gerarchie <<la autoridad se convierte en violencia desnuda o violencia larvada>>(112), come appunto quella della nostra polizia.

4. Se ora ci chiediamo quale sia il periodo che Gómez Dávila più apprezza sotto l’aspetto del diritto, per la sua maggior aderenza alla trama del giuridico compiutamente sviluppata nel De iure, possiamo senza dubbio rispondere che egli ammira sopra ogni altro tratto storico, e da qualsiasi angolo visuale, il medioevo feudale europeo(113), essenzialmente caratterizzato dal <<desvanecimiento del Estado>> e dalla sua sostituzione con <<un’articolazione libera di meccanismi sociali>>(114).

Rilevante sul punto è lo scolio in cui il colombiano, con una punta di eccesso rispetto a quanto scritto nel saggio in merito alla validità – ovviamente misurata alla stregua della sua categoria del giuridico – di vari ordinamenti succedutisi nel tempo, dichiara: <<personalmente, credo legittimo solo un mondo che governano, da troni simmetrici, il Pontefice romano e l’Imperatore germanico>>(115) (un tempo a capo di quella struttura il cui <<cadavere dorme nelle cripte della Chiesa>>(116)).

Riscontrato che fosse nell’assunto un margine di ambiguità, dato che il feudalesimo non vi compare espressamente, ogni perplessità sull’effettivo sentire del nostro è destinata a dileguarsi ove si leggano questi sette frammenti: il primo proprio sul feudalesimo, visto quale <<unico tipo di società>> che ha avuto <<come radice storica e sprone etico un contratto sociale>>(117); il secondo e il terzo ancora sul feudalesimo, in cui è detto che <<l’unico regime politico che non è spontaneamente incline al dispotismo è quello feudale>>(118) e che il terrore è il regime naturale di ogni società che non presenti <<tracce di feudalesimo>>(119); il quarto sempre sul feudalesimo, presentato come artefice di un miracolo, in quanto ha saputo conciliare l’ordine che <<paraliza>> e il disordine che <<convulsiona>>, inscrivendo <<un desorden instituido dentro de un orden englobante>>(120); il quinto e il sesto di plauso sostanziale per coloro che rifiutano l’idea del legislatore onnipotente e così mantengono viva un’eredità del medioevo(121), connotato da quell’<<anarchia feudale>> che, condannata dal <<liberal vulgar>>, piace al <<liberal auténtico>>(122); l’ultimo relativo al triangolo <<aldea, castillo, monasterio>>, delineatovi invero non come possibile oggetto di una <<miniatura medieval>>, ma quale <<paradigma eterno>>(123).

Non meno pregnante è tuttavia la glossa seguente, pur formulata in maniera meno altisonante di quella appena citata: <<lo schema sociale del medioevo è il paradigma della struttura sociale della civiltà. Complesso sociale di signorie rurali e di repubbliche urbane organizzato gerarchicamente in una piramide temporale parallela a una piramide spirituale autonoma>>(124) (ovviamente rilevante sul piano del diritto, al pari della prima piramide: per cui, non essendo questa <<mero resultante empírico de casualidades sociales>>, il ‘superiore’ veniva percepito come elemento di protezione e riparo e non come un peso(125)). Si tratta di parole che esprimono un concetto già prospettato così: <<la civiltà dell’Occidente è il risultato di un’alleanza tra latifondisti e vescovi>>(126); <<episcopato, nobiltà terriera, monachesimo(127), monarchia feudale, patriziato urbano sono i fili con cui è stato tessuto l’arazzo dell’Occidente. Sebbene il conflitto tra il Papato e l’Impero abbia impedito di portare a termine l’opera, vari secoli sono stati comunque necessari per distruggerne poco a poco i frammenti>>(128). E così oggi perfino ignoriamo <<il problema della qualità del comando>>, che, dopo aver angustiato gli antichi, il medioevo era riuscito a risolvere(129).

A dare sostegno alla predilezione di Gómez Dávila non manca peraltro una valutazione di natura etica, come conferma questa osservazione: <<il feudalesimo si è fondato su sentimenti nobili, quali lealtà, protezione, servizio. Gli altri sistemi politici si fondano su sentimenti vili: egoismo, avidità, invidia, codardia>>(130). Lontanissima da queste basse pulsioni è anche la carità, che, come si trae da un altro frammento, per gli odierni propugnatori dell’egualitarismo è <<una cattiva abitudine feudale>> e non, come dovrebbe riconoscersi, una virtù diffusa nella società gerarchica feudale(131).

Ma anche sul piano che potremmo qualificare estetico-antropologico il giudizio del nostro sul medioevo feudale è di pura eccellenza, tanto più al confronto con la contemporaneità: in quel periodo, egli scrive, segnato dal romanico, in cui si fondono <<el Evangelio y La Ilíada>>(132), tutto, da una chiesa eretta secondo questo stile o una relazione gerarchica fino a un calvario gotico o un pellegrino cantuariense, è forte, vigoroso, sensuale, concreto, <<porque el hombre medieval sentía la trascendencia como un atributo perceptible del objeto>>(133); invece l’uomo attuale <<oscilla tra la sterile rigidità della legge e il volgare disordine dell’istinto>>, ignorando <<la disciplina, la cortesia, il buon gusto>>(134). E poi solo nell’epoca rimpianta da Gómez Dávila qualcuno poteva essere <<local sin ser provinciano>>(135). Unicamente se datano almeno da essa, d’altro canto, dismettono il grottesco che altrimenti ostentano tanto i titoli nobiliari quanto le superstizioni(136).

Né vale a incrinare il pensiero dell’autore il ricordo della <<‘revolución comunal’ del siglo XII>>, che a suo avviso <<no fue el primer acto de la aventura democrática en la historia moderna>>. E questo perché il movimento comunale in realtà si proponeva di integrare nel sistema imperniato sul feudalesimo e la gerarchia ecclesiastica una classe sociale nuova, la borghesia: e dunque <<no contradecía la estructura social del medioevo, sino la completaba>>(137).

La superiorità della società feudale rispetto a quella moderna al nostro appare inoltre comprovata dal fatto che i dotti attivi nella prima, e cioè chierici, poeti e cronisti, <<la censuravano solo quando violava i suoi principi>>, i quali, tra l’altro, imponevano di considerare i beni come <<mezzi per acquisire uomini>>, mentre i dotti attuali, ossia filosofi, poeti e romanzieri, censurano la seconda <<quando osserva il proprio principio>>(138), che porta anche a vedere negli uomini <<mezzi per acquisire beni>>(139).

Quanto, uscendo dal medioevo, il mondo abbia perduto, per Gómez Dávila si può cogliere sinteticamente non appena si rifletta sulla straordinaria vicinanza della relazione feudale a quella tra cristianesimo e Cristo: nell’una figurano il <<signore che dà la vita per i suoi fedeli>> e i <<vassalli fedeli al signore fino al martirio>>; nell’altra abbiamo un <<vassallaggio mistico>>(140).

5. È nell’antichità romana che vanno comunque ricercate le radici della società feudale, secondo Gómez Dávila.

<<L’Occidente si è forgiato nella fucina socio-economica che il patriziato trasmise all’ordo senatorius e l’ordo senatorius alla società feudale>>, egli osserva(141); inoltre constata: <<la diffusione dell’economia senatoriale nella parte occidentale dell’Impero ha fondato la civiltà di Occidente. Le impronte del senato romano non si cancellano se non nel secolo XX>>(142). E se il patriziato al quale allude l’autore è il ceto che fu così importante durante l’età repubblicana, la cui voce si riflette nella prosa di Cesare, <<dura, semplice, lucida>>(143) – a dimostrazione che l’aristocrazia non è un mucchio di fronzoli o false apparenze, ma <<una voce tagliente>>(144) –, l’ordo senatorius rappresenta la classe, sviluppatasi a partire dal periodo del principato anche su base ereditaria, che Costantino rivitalizzerà, allargandone altresì i ranghi.

Proprio a questo imperatore il colombiano dedica un’annotazione che merita di essere ripresa(145): <<nell’arrestare l’erosione intenzionale dell’ordo senatorius, aprendogli di nuovo le porte del potere, Costantino il Grande ha tracciato i fondamenti dell’Occidente. Né il cesaro-papismo bizantino né la teocrazia puritana hanno potuto stabilirsi dove la società feudale ‘jerarquizaba en Sacro Imperio su estructura de barricadas libertarias’>>(146). Non stupisce, allora, trovare la villa romana in questo scolio: <<villa romana o carolingia, castello feudale o abbazia benedettina, Landsitz, château, country-house, il fondo rurale è stata la vera e propria struttura di base dell’Europa di un tempo. La civiltà occidentale è stata una cospirazione di possidenti>>(147).

In adesione a Cuena Boy(148), va sottolineato che Gómez Dávila, quando parla dell’ordo senatorius, <<pone énfasis principalmente en el significado socio-económico de aquel ordo, o sea, en el predominio de la aristocracia senatorial de carácter hereditario>>, in effetti prolungato e anzi rinvigorito da Costantino, il quale aveva assorbito <<dentro de los quadros de la nobleza senatorial>> molti dei membri dell’ordo equester e assicurato alla stessa i posti di grado più elevato dell’amministrazione civile.

È poi da rilevare, ancora con Cuena Boy(149), che <<jerárquico era también el Imperio constantiniano y cuna del futuro dualismo imperium sacerdotium elogiado por Gómez Dávila>>, il quale, se non individua <<como paradigma el Imperio romano-cristiano, sino el feudalismo medieval>>, è perché privilegia <<el pluralismo característico de este sistema, así como … el resguardo de ámbitos diferenciados de libertad (las libertades medievales(150)) que suponía la dispersión del poder dentro de él>>(151). Significativo, a questo riguardo, è lo scolio seguente: <<la fossilizzazione totalitaria dell’organismo sociale sotto la pressione dello Stato si è fermata soltanto, durante una miracolosa primavera, davanti alle barriere alzate ‘por el dualismo imperium-sacerdotium y por el pluralismo feudal’>>(152).

6. Pur scorgendo anche nella Roma della repubblica e del principato qualche germe della futura società feudale, non è dunque a questa che Gómez Dávila guarda come modello, nemmeno nel campo del giuridico(153). Anzi, ai prudentes di età imperiale egli si rivolge con tono accusatorio a più riprese, negli Escolios e nel De iure, come vedremo nel seguito.

Nondimeno a quella Roma il colombiano dirige talora la sua benevola attenzione: ad esempio, per riconoscere che essa, e solo essa, <<ha saputo comandare senza pretesti ideologici>>(154); o per dichiarare che la <<república senatorial>> che finisce nelle mani di Augusto – uomo in cui qualcosa di divino c’era(155) – merita approvazione intellettuale, al pari della <<monarquía senatorial>> inglese(156); ma al contrario della democrazia ateniese, che entusiasma unicamente quelli che non conoscono gli storici greci(157), né, accecati dalla naturale ammirazione che in tutti noi suscitano l’arte e la letteratura cui hanno dato vita(158), i greci stessi, i quali erano invidiosi, sleali e altro ancora di negativo – tanto che dalla loro lingua <<nadie ha podido traducir una sola virtud>>(159) – e comunque troppo attratti dal popolo(160). Anche se è da credere che della democrazia ateniese la posterità ami inconsciamente gli ideali aristocratici superstiti che andava progressivamente distruggendo(161). Proprio i greci, d’altro canto, hanno dato impulso alla civiltà ellenistica, la quale, in mancanza della propagazione dei culti orientali e delle invasioni germaniche, <<hubiese iniciado, desde Roma, la americanización del mundo>>(162). Anzi, <<senza l’opportuna paralisi dell’ingegno greco, la tendenza tecnologica della prima epoca ellenistica avrebbe probabilmente anticipato l’orribile mondo moderno>>(163).

Ancora la Roma di cui andiamo parlando è evocata, con tono pacato, in vari altri scolii. In quelli più interessanti Gómez Dávila chiama in causa <<la plebe divina degli Indigitamenta>>, ritenendo che il vero Dio respira più autenticamente al suo interno che nell’ambito della moderna teologia(164) e che è più facile credere in essa e negli dei dell’Olimpo che nell’inesistenza di Dio(165); suggerisce, ironicamente, di non convocare nuovi concili, dal momento che <<basta aspettare un Decio o un Diocleziano>>(166); parla della dignitas e della gravitas come elementi della pompa latina che camuffa la nostra miseria, ma che è comunque ben superiore rispetto alla sincerità moderna, accondiscendente verso ogni bassezza(167); accenna, avendo sullo sfondo il quadro delle lotte tra il patriziato e la plebe – le cui confliggenti mentalità, a suo parere, si sono radicate nella storia(168) –, al <<coriolanismo>>, inteso quale sentimento che il trionfo della plebe <<finisce per risvegliare in ogni osservatore imparziale>>(169); condanna il collettivismo e l’individualismo, in quanto errori simmetricamente opposti alla soluzione corretta che l’Occidente aveva prefigurato <<con los clientes romanos, los etera etruscos, los ambacti celtas>>(170); contrappone alla poesia, che non ha frontiere, le retoriche, che sono nazionali e vanno però distinte a seconda che siano <<senatoriales>> o <<tribunicias>>(171); delinea la fisionomia dell’homo novus, effigiandolo come avido e duro, attento a non farsi sfruttare e tuttavia né rude né crudele con il subalterno, ma giusto, in quanto esige implacabilmente l’adempimento del pattuito e non è disposto a lasciarsi <<robar un poco amigablemente>>, a costo di aizzare la ribellione contro la classe alta in cui ha preso il sopravvento(172); riprende la distinzione tra popolo e plebe, esponendo una duplice idea: che nella teoria democratica popolo significa populus e nella pratica democratica equivale invece a plebs(173), vale a dire che nella seconda, dove si assume la parte per l’intero, si registra la supremazia di una frazione, cioè della maggioranza, vista come plebe – per giunta secessionista(174) –, sulla totalità, coincidente con il popolo della teoria democratica(175); e che il fenomeno della degradazione del popolo in plebe rimane sempre lo stesso, povera o ricca che sia la plebe(176); menziona i <<nuovi liberti>>, dicendo che sono essi, <<desiderosi di occultare l’ergastolo in cui sono nati>>, a chiedere l’abrogazione del passato, dal quale è orgoglioso di dipendere <<solo chi sa di essere legittimo erede della storia>>(177).

7. Agli occhi di Gómez Dávila, come preannunciato, non si salvano i giuristi più osannati nel corso dei secoli, anzi dei millenni, ossia i giuristi romani del principato, ai quali viene comunemente riservato l’epiteto di classici, per denotare i vertici sublimi toccati dalla loro produzione scientifica, almeno sotto il profilo del metodo.

Le colpe che l’autore imputa loro sono plurime: la formulazione della tesi che vuole il princeps legibus solutus (<<el monarca legítimo no es el princeps solutus legibus de los juristas cesáreos, sino la posibilidad legal, ante el caso concreto, de despertar de su sueño dogmático las reglas jurídicas>>, leggiamo in un frammento degli Escolios(178)); la giustificazione teorica dell’assolutismo, cardine fondamentale della democrazia(179) (suona nel modo seguente l’annotazione degli Escolios rilevante sul punto: <<el absolutismo es el principio vital de la democracia. Los serviles juristas de los Severos son sus más lúcidos doctores>>(180)); il riconoscimento di una potenzialità normativa alla natura delle cose, in scia allo stoicismo (<<el pórtico despierta la noción de un criterio trascendente en la cabeza berroqueña de los juristas imperiales>>, è detto nel De iure(181)).

Quanto sia grave, nell’ottica del colombiano, anche l’ultimo addebito è testimoniato da non poche osservazioni sparse nella sua opera principale, a cominciare da queste: <<ni en la naturaleza del mundo, ni en la naturaleza del hombre, existen rastros de normas>>, le quali derivano invece <<de intromisiones de la voluntad>> e <<de una voluntad sometida a la percepción de un valor>>(182); <<los que profesan la noción de derecho natural jubilan a Dios en la conserjería de un vago ministerio de justicia>>(183). A conferma, dunque, che per l’autore la natura comunque intesa è priva di ogni forza sul piano delle regole giuridiche, per cui va biasimato chi approva l’idea opposta e finisce così per ‘jubilar a Dios’.

Ma non meno significative sono altre glosse, nelle quali Gómez Dávila colloca il diritto naturale, unitamente alla deificazione dell’uomo, al determinismo, all’egualitarismo e al cosmopolitismo, tra gli abbagli dell’uomo provocati dallo stoicismo, giungendo a ravvisare in questo <<la cuna de todos los errores>>(184); ricorda, quasi fosse un suo limite, che <<el historismo>> – tanto apprezzabile quanto non lo è <<el historicismo>>(185) – non si è pronunciato contro il diritto naturale, ma contro <<el contenido che el Aufklärung attribuía al derecho natural>>(186); denuncia il vizio di <<llamar ‘naturales’ ciertos rasgos axiológicos>>, che facilita <<la confusión de lo axiológico con lo ontológico>>(187) – base per il recupero dell’ontologico, creduto anche assiologico, nel giuridico –, precisando che il ‘naturale’ è stato elevato a categoria assiologica <<para poder absolver lo immundo>>(188) e che <<la conversione surrettizia della classe ontologica in classe assiologica è il trucco prediletto dal truffatore intellettuale>>(189); spiega che le due classi sono a tal punto diverse che la prima <<si definisce>> e la seconda – quella dei valori, le ragioni giustificatrici dei quali risiedono nei valori stessi(190) – <<si intuisce>>(191), rammentando peraltro che in Cristo, e solo in lui, ontologia e assiologia si fondono(192); avverte che il mondo deve <<servir de tema, pero no de norma>>(193), nemmeno – pare evidente – nell’area del giuridico; sostiene che i principi in genere, e dunque – si può immaginare, nell’assenza di restrizioni – anche quelli giuridici, sono <<valori fossilizzati>>(194); e soprattutto deplora un brano di Ulpiano confluito in D. 1.1.1.3, dove il giurista definisce il diritto naturale come comprensivo di ciò che la natura omnia animalia docuit, portando esempi, quali quelli dell’unione tra maschio e femmina, e dunque del matrimonio tra uomo e donna, della procreazione dei figli e della loro educazione, che rendono evidente il pernicioso trascorrere dal piano della natura, caricato di implicazioni valoriali, a quello normativo in senso proprio: ovvero la nefasta <<ontologización del derecho que ha pervertido el pensamiento jurídico>>(195).

Al qual proposito non senza ragione Cuena Boy(196) osserva che siamo al cospetto di <<ejemplos de ontologización que a nosotros podrían parecernos un tanto esquinados u oblicuos, ya que de lo que se trata en el fondo es de impugnar el concepto de que la naturaleza pueda imponerle al derecho contenidos de carácter axiológico, valores por tanto, y aquellos ejemplos consisten únicamente en comportamientos biológicos>>. Nondimeno, come ammette lo spagnolo, essi riescono a evocare quello che a Gómez Dávila sta a cuore, ossia l’indebita cancellazione della frontiera tra assiologico e ontologico che, nel campo del diritto, il giusnaturalismo reca con sé: appunto perché vi attrae l’esistente come se fosse di per sé valoriale.

Proprio il martoriato Ulpiano, che, oltre ad aver disgraziatamente teorizzato ed esemplificato il diritto naturale, rientra nel novero dei <<servili giuristi dei Severi>> patrocinatori sommi dell’assolutismo e fra gli alfieri dell’inaccettabile dottrina del princeps legibus solutus tracciata in D. 1.3.31, è peraltro l’artefice della nozione di giustizia, trasmessaci da D. 1.1.10 pr., che il colombiano considera storicamente più acconcia: tanto che, come già abbiamo constatato, ne ripropone l’essenza, adattandola al proprio contesto ricostruttivo, là dove, nel De iure, scolpisce la sua definizione in materia. Scrive infatti il nostro: <<conforme a cierta definición ilustre, la justicia consiste en dar a cada cual lo suyo, es decir, en respetar el derecho válido que cada cual posee. La justicia solamente logra proporcionar lo que conmuta y distribuye, cuando lo mide con la regla de derecho. La justicia no pesa, ni reparte, sino registra y confirma. La justicia no es tabla trascendente de derechos, sino la obligación suprema de ser fieles al convenio concluido y a los derechos engendrados>>(197).

Lasciando da parte l’isolato apprezzamento per Ulpiano che riflette sulla giustizia, v’è da aggiungere che il giudizio negativo di Gómez Dávila non investe soltanto i prudentes. Anche i glossatori, cui si è soliti riconoscere il merito di aver riscoperto ed elevato a cuore pulsante all’interno della magmatica area del diritto il pensiero della giurisprudenza classica, vengono, appunto per questo, rimproverati dal nostro. Assoggettando le categorie del diritto consuetudinario medievale a quelle del <<derecho cesariano>>, essi hanno iniziato a forgiare lo Stato – implicitamente dato come nemico di quel diritto consuetudinario –, dice un frammento, che così continua: <<un Merlin es el sucesor de un Dubois que es el sucesor de un Accursius>>(198). E se quest’ultimo è universalmente riconosciuto come uno dei più importanti glossatori, il secondo <<es el legista Pierre Dubois (1255-1321), autor de la Disputatio inter clericum et militem>>, e il primo <<es probablemente Philippe Antoine Merlin de Douai (1754-1838), considerado ‘padre del derecho terrorista’>>, stando alle informazioni di Cuena Boy(199).

Rispetto ai giuristi del secondo millennio che, spinti dall’esigenza di enucleare il diritto da applicare concretamente allorché erano attivi, hanno messo a frutto le indicazioni normative promananti dai prudentes, Gómez Dávila tributa parole di elogio unicamente a Savigny. Di lui, in particolare, addita <<los atisbos geniales>>, ovvero quelle felici osservazioni che la scienza giuridica tedesca dell’Ottocento non è stata però capace di coltivare adeguatamente, finendo per contrapporre <<al literalismo legal de los civilistas clásicos franceses>> nulla più che un <<positivismo estatal>>(200): un’eco delle quali Cuena Boy(201) avverte nello scolio che, con riguardo ai fatti sociali e dunque anche al diritto, distingue <<lo ‘orgánico’>>, risultato <<de innúmeros actos humildes>> – quali si rinvengono alla base del diritto consuetudinario –, e <<lo ‘mecánico’>>, prodotto <<de un acto decisorio de soberbia>>(202).

Vero è, peraltro, che il Gómez Dávila di Notas, un volume uscito a Città del Messico nel 1954 dal contenuto in parte rielaborato e trasfuso negli Escolios, doveva avere una buona opinione circa <<los jurisconsultos de Roma>>, ritenendoli addirittura in grado di prospettare soluzioni di diritto avulse dalla natura delle cose. Lo lascia supporre un brano in cui, dopo aver sostenuto che <<la naturaleza no crea ningún valor>>, osserva: <<que la estúpida necesidad de una regla colectiva de acción culmine en los jurisconsultos de Roma; que la molesta necesidad de tolerar el vicino culmine en la caridad de las órdenes religiosas o en el equilibrio milagroso de un salón del siglo dieciocho; que el celo de la selva primigenia culmine en un soneto de Louise Labé; todo esto es una incomparable victoria de la extraña facultad del hombre de traicionar la naturaleza>>(203).

Ma il non saper <<tradire la natura>>, il non riuscire a disattenderne le direttrici, è proprio quello che il colombiano più maturo e maggiormente consapevole del modo di operare dei giureconsulti di Roma ascrive, insieme ad altro, a loro demerito.

NOTAS:

(1). Al 1977, più precisamente, risalgono gli Escolios a un texto implícito, suddivisi in due tomi; al 1986 i Nuevos escolios a un texto implícito, anch’essi in due tomi; al 1992 i Sucesivos escolios a un texto implícito. Del primo volume degli Escolios del 1977 esiste una traduzione in italiano, che riempie due libri: In margine a un testo implicito, a cura di F. Volpi, Milano, 2001; Tra poche parole, a cura di F. Volpi, Milano, 2007. Nel prosieguo si citerà da questi e dalla seconda edizione degli Escolios, uscita a Bogotá nel 2005.

(2). Per la sua vicenda biografica e la produzione complessiva cfr. J. M. Serrano Ruiz-Calderón, Democracia y nihilismo. Vida y obra de Nicolás Gómez Dávila, Pamplona, 2015, 17 ss.

(3). Cfr. M. Galindo Hurtado, Un pensador aristocrático en los Andes: Una mirada al pensamiento de Nicolás Gómez Dávila, in Historia Crítica. Universidad de los Andes, XIX, 2000, 13 ss.

(4). Cfr. S. Lavina, La idiosincrasia antimoderna de Nicolás Gómez Dávila, in Eikasia. Revista de Filosofía, 2012, 265 ss.

(5). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 194: <<l’uomo di sinistra è la caricatura del marxista e il conservatore la nostra>>.

(6). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 48.

(7). Cfr. F. Volpi, Un angelo prigioniero nel tempo, in N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 172.

(8). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 193.

(9). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 381.

(10). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 382.

(11). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 136.

(12). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 77.

(13). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 279.

(14). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 36.

(15). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 148.

(16). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 153.

(17). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 84. V. anche Id., Escolios, cit., II, 375: rara è l’anima che non riveli, in un breve sorriso, un’incorruttibile capacità di tradimento, di crudeltà e di ignominia>>.

(18). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 39. Alle pp. 150 s. è detto che l’esclamazione <<molto civile!, molto umano!>> non lascia dubbi, in quanto copre di sicuro <<qualche abietta porcheria>>. E in Id., In margine a un testo implicito, cit., 82, si registra l’uso dell’aggettivo ‘umano’ per <<giustificare ogni bassezza>>.

(19). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 66.

(20). Cfr. F. Volpi, Un angelo, cit., 171.

(21). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 137.

(22). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 96. V. anche Id., In margine a un testo implicito, cit., 136: <<gli ‘ideali’ sono sintomo di larvato narcisismo. Nella patologia dell’egoismo c’è un capitolo riservato all’‘idealista’>>.

(23). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 331.

(24). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 29: <<la libertà ubriaca l’uomo quale simbolo di indipendenza da Dio>>; Id., Nuevos escolios, cit., I, 35: <<la libertà ubriaca in quanto licenza di essere altro>>.

(25). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 130.

(26). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 35.

(27). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 183.

(28). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 143.

(29). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 209.

(30). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 261. V. inoltre Id., Tra poche parole, cit., 163: <<più gli uomini si sentono uguali, più facilmente tollerano di essere trattati come pezzi intercambiabili, sostituibili e superflui. L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche>>. E ancora: <<la nozione di dignità personale nasce nell’individuo dal sentimento della propria differenza. Tutto quello che aumenta la nostra somiglianza reciproca indebolisce la consapevolezza di avere diritto a esigere dalla società che rispetti il nostro destino>>.

(31). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 32 (a p. 173 è detto che <<l’uomo ha un innato appetito di gerarchia che le false gerarchie trasformano in nausea>>). In Id., Sucesivos escolios, cit., 124, è presa di mira l’idea che tutte le professioni siano uguali, in quanto contraria alla realtà al pari di quella dell’<<igualitarismo individual>>: e invero, <<la civilización exige que las profesiones se coloquen socialmente en orden jerárquico>>. In Id., Tra poche parole, cit., 50, rinveniamo questo ammonimento: <<non commettere l’ingiustizia di trattare i tuoi superiori come uguali>>.

(32). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 323. Secondo Id., Nuevos escolios, cit., II, 35, <<la noción de igualdad que niega la existencia de jerarquías debe ser lisa y llanamente rechazada>>.

(33). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 215. V. anche Id., Nuevos escolios, cit., II, 155: <<la gerarchia è la sintassi del discorso sociale>>. Ed è <<il principio che salva le contraddizioni>>, per quanto emerge da Id., Escolios, cit., II, 125.

(34). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 352.

(35). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 141. V. pure Id., Tra poche parole, cit., 164: <<il reazionario ha inventato il dialogo osservando la dissomiglianza degli uomini e la varietà delle loro aspirazioni. Il democratico pratica il monologo perché per bocca sua si esprime l’umanità>>.

(36). Cfr. F. Volpi, Un angelo, cit., 173.

(37). Secondo N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 49, <<il democratico esclama a voce alta: vox populi vox Dei; e sussurra a voce bassa: quia populus deus est>>.

(38). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 21.

(39). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 89. Per Id., Escolios, cit., II, 385, il relativismo assiologico non è mai una soluzione, essendo <<precisamente il problema>>.

(40). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 120. Per Id., Tra poche parole, cit., 223 s., <<avendo proclamato il dogma dell’innocenza originale, la democrazia ne conclude che il colpevole del delitto non è l’assassino invidioso, bensì la vittima che ha suscitato la sua invidia>>.

(41). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 345. Stando a Id., Nuevos escolios, cit., I, 23, <<errare è umano, mentire è democratico>>.

(42). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 153. V. anche Id., Escolios, cit., II, 342 e 124: <<la promiscuità sessuale è la propina con cui la società acquieta i suoi schiavi>>; <<nel paradisiaco futuro dei sogni progressisti, il globo terracqueo oscillerà al ritmo della copula universale>>.

(43). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 26 (a p. 125 si arriva ad affermare che <<i politici, in democrazia, sono i condensatori dell’imbecillità>>). V. anche Id., Sucesivos escolios, cit., 57: quando gli eletti dal popolo non appartengono agli strati intellettuali, morali e sociali più bassi della nazione, possiamo essere sicuri che <<surrettizi meccanismi antidemocratici hanno interferito nel funzionamento normale del suffragio>>.

(44). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 344.

(45). Cfr. L. Garofalo, Biopolitica e diritto romano, Napoli, 2009. Rispetto alle leggi che, in qualunque sistema, riconoscono la libertà, la posizione di N. Gómez Dávila è comunque chiara, desumendosi da Sucesivos escolios, cit., 29: quando risulti necessario limitare questa prerogativa per salvare altri valori, <<se pueden tomar medidas iliberales con la conciencia limpia, porque la libertad no es el valor supremo>>.

(46). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 147 (qui è altresì detto che <<la democrazia celebra il culto dell’umanità su una piramide di crani>>).

(47). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 115.

(48). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 348 (d’altro canto, si legge a p. 335, <<con le idee di destra facciamo poesia, con quelle di sinistra retorica>>). V. anche Id., Sucesivos escolios, cit., 111: <<la democrazia ignora la differenza tra verità ed errori; distingue solo tra opinioni popolari e opinioni impopolari>>.

(49). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 144: <<la frustrazione è il carattere psicologico distintivo della società democratica. Dove tutti possono aspirare lecitamente alla cuspide, la piramide intera è accumulazione di frustrati>>.

(50). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 51: <<nelle democrazie, dove l’egualitarismo impedisce che l’ammirazione sani la ferita che la superiorità altrui infligge alle nostre anime, l’invidia prolifera. L’invidia è l’ignobile sostituto democratico dell’omaggio>>.

(51). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 111: <<in fin dei conti la buona educazione non è altro che il modo in cui si esprime il rispetto. Essendo il rispetto, a sua volta, un sentimento ispirato dalla presenza di una superiorità riconosciuta, ove manchino gerarchie, reali o fittizie ma comunque osservate, la buona educazione viene meno. La rozzezza è un prodotto democratico>>.

(52). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 172. A p. 85 è detto che <<desde mediados del siglo pasado, desde Baudelaire, Flaubert, Kierkegaard, Dostoievski, Ruskin, Burckhardt, es cosa sabida que la fe en el progreso caracteriza al imbécil>>. In Id., Sucesivos escolios, cit., 77, viene ribadito che <<en el hombre inteligente la fe es el único remedio de la angustia>>, mentre <<al tonto lo curan ‘razón’, ‘progreso’, alcohol, trabajo>>; e in Id., In margine a un testo implicito, cit., 145, si constata che <<oggi gli imbecilli sono, fortunatamente, progressisti>>.

(53). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 127. Aristocratica l’intelligenza lo è anche perché, come si trae da p. 215, essa <<no conoce barreras, pero tiene peldaños>>: gradini, cioè.

(54). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 62. V. anche Id., In margine a un testo implicito, cit., 56: <<lo sguardo disinfettante dell’intelligenza è l’unica profilassi contro le purulenze della vita>>.

(55). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 93.

(56). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 111.

(57). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 116.

(58). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 50.

(59). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 67 ss.

(60). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 71.

(61). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 71 ss.

(62). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 74.

(63). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 74 s.

(64). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 75 s.

(65). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 76 s.

(66). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 83.

(67). È questo il passo al quale N. Gómez Dávila, De iure, cit., 69 e 77, fa di sicuro rinvio, ancorché non lo richiami espressamente.

(68). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 77 s.

(69). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 79.

(70). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 79 s.

(71). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 81 ss.

(72). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 92.

(73). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 346: <<la democrazia tiene il terrore per mezzo e il totalitarismo per fine>>.

(74). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 36.

(75). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 149 s.

(76). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 92. Secondo Id., Escolios, cit., II, 308, <<totalitarismo è la fusione sinistra di religione e Stato>>.

(77). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 66.

(78). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 88.

(79). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, la historia, el derecho, in Iustel. Revista General de Derecho Romano, XVI, 2011, 20.

(80). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 54.

(81). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 321.

(82). Cfr. ancora N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 321.

(83). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 20.

(84). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 21.

(85). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 112.

(86). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 183.

(87). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 146.

(88). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 315.

(89). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 346.

(90). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 45.

(91). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 105.

(92). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 200.

(93). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 145.

(94). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 344.

(95). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 39.

(96). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 136.

(97). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 215.

(98). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 225.

(99). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 134. V. anche Id., Escolios, cit., II, 398: <<cuando el sector uniformado de la burocracia toma hoy el poder, los tontos creen que lo tomó un ejército>>.

(100). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 103.

(101). Per N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 146, <<en el Estado moderno ya no existen sino dos partidos: ciudadanos y burocracia>>.

(102). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 119: <<en la sociedad sana, el Estado es órgano de la clase dirigente; en la sociedad contrahecha, el Estado es instrumento de una clase burocrática>>.

(103). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 363.

(104). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 85.

(105). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 386.

(106). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 358.

(107). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 398.

(108). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 236.

(109). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 52.

(110). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 231.

(111). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 341.

(112). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 350.

(113). Ancor oggi, si legge in N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 120, l’Europa propriamente detta è formata dai paesi educati dal feudalesimo>>. Ma se questi finiranno per rinunciare ai loro particolarismi in vista della creazione del ‘buon europeo’, troviamo in Id., Escolios, cit., II, 56, <<temamos que sólo engendren a otro norteamericano>>

(114). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 395.

(115). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 130. A introdurre l’annotazione riferita sono queste parole: <<el cristianismo es radicalmente adverso a la teocracia. Una sociedad convertida en Iglesia no prefigura el reino de Dios. Dibuja, al contrario, su caricatura satánica. La Iglesia reclama la paralela existencia del Imperio>>.

(116). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 90.

(117). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 79.

(118). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 227.

(119). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 62.

(120). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 389.

(121). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 120.

(122). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 91. V. anche Id., Escolios, cit., II, 135: <<‘anarchia feudale’ è il soprannome con cui il terrorismo democratico denigra l’unico periodo di libertà concreta che conosca la storia>>.

(123). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 335.

(124). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 36. Nella pagina precedente la borghesia viene valutata in correlazione al mondo feudale: <<la burguesía, en el marco feudal, se localiza en pequeños centros urbanos donde se estructura y se civiliza. Al romperse el marco, la burguesía se expande sobre la sociedad entera, inventa el Estado nacional, la técnica racionalista, la urbe multitudinaria y anónima, la sociedad industrial, la masificación del hombre y, en fin, el proceso oscilatorio entre el despotismo de la plebe y el despotismo del experto>>.

(125). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 186.

(126). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 188. A proposito del diritto canonico, opinione dell’autore, espressa in Nuevos escolios, cit., II, 82, è che senza di questo la Chiesa non avrebbe sviluppato e conservato la sua mirabile presenza istituzionale nel corso della storia. Avrebbe però visto maturare una teologia migliore se i cultori della materia si fossero impegnati a trattare i problemi di loro pertinenza abbandonando la mentalità del canonista.

(127). Individuato il <<vero aristocratico>> in colui che ha una vita interiore, indipendentemente dalla sua origine, dal suo rango e dal suo patrimonio, N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 80, scorge il <<supremo aristocratico>> non nel signore feudale nel suo castello, ma nel monaco contemplativo nella sua cella. Il che si concilia con l’idea, enunciata a p. 157, che <<l’azione è il rifugio delle intelligenze spaventate>>.

(128). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 36. In Id., Sucesivos escolios, cit., 31, si dà peraltro atto che i parlamenti, nello Stato moderno, sono <<rimanenze feudali>>, pur se in via di sparizione.

(129). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 178. A p. 244 si aggiunge: <<il diritto al comando è stato il tema centrale della politica, ieri. Le tecniche di captazione del comando sono, oggi, il tema centrale della politica>>. Comunque, sostiene Id., Tra poche parole, cit., 173, <<la società libera non è quella che ha il diritto di scegliere chi la comanda, ma quella che sceglie chi ha il diritto di comandarla>>.

(130). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 83. V. anche Id., Sucesivos escolios, cit., 129: <<la differenza tra medioevo e mondo moderno è chiara. Nel medioevo ‘la estructura es sana, y apenas ciertas coyunturas fueron defectuosas’; nel mondo moderno ‘ciertas coyunturas han sido sanas, pero la estructura es defectuosa’>>.

(131). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 366.

(132). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 373.

(133). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 260.

(134). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 320.

(135). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 377.

(136). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 227.

(137). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 126.

(138). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 115.

(139). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 119.

(140). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 84.

(141). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 94.

(142). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 154.

(143). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 390.

(144). Cfr. ancora N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 390. Giova ricordare, a proposito di Cesare, quanto si legge in Id., Nuevos escolios, cit., II, 161: <<solo due tra gli esempi prediletti dalla propaganda democratica sono riusciti a commuovermi>>, ossia <<el ‘igualitarismo’ de Esparta y el ‘liberalismo’ de la reacción senatorial contra César>>.

(145). Essa si somma a quella, contenuta in N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 130, in cui l’autore si chiede se non si possa immaginare, dopo un lungo tempo di egemonia sovietica, <<la conversione di un nuovo Costantino>>.

(146). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 116. A p. 12 il <<Sacro Imperio>> viene definito come incarnazione dell’ultima vera idea politica. E a p. 80 è detto che <<senza struttura gerarchica non è possibile trasformare la libertà da favola in fatto>> e che <<il liberale scopre sempre troppo tardi che il prezzo dell’eguaglianza è lo Stato onnipotente>>. In Id., Nuevos escolios, cit., II, 33, è la nazione – vista quale <<fenomeno recente senza basi geografiche o etniche, pura costruzione legale e politica>> – a essere considerata il fattore principale della disgregazione tanto della <<comunidad real de Kleinstaat>> come della <<comunidad ideal del Sacro Imperio>> (per un commento al riguardo cfr. M. Ayuso, Nación y nacionalismo. Una reflexión sobre el pensamiento de Nicolás Gómez Dávila, in Anales de la Fundación F. Elías de Tejada, Madrid, XV, 2009, 91 s.).

(147). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 186. Interessante è anche la riflessione che precede quella riportata: <<quando lo storico scoprirà che il marxismo l’ha indotto a scrivere, sotto la denominazione di storia economica, una storia di istituzioni giuridiche, il passato cambierà volto. Infatti, così come non è il salario a definire economicamente il mondo moderno, ma la fabbrica, allo stesso modo non è sul servo che si regge l’economia medioevale, ma sulla villa>>.

(148). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 9 s.

(149). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 10.

(150). Richiamate anche in N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 309: <<era liberal>> è quella che comprende i quattro secoli durante i quali si è avuta <<la liquidación de las libertades medievales>>.

(151). Per N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 92, <<el Estado, que absorbe todas las libertates en la suya, es la forma política antagónica del Imperio, estructura de irreductibles libertades>>. E queste, ricaviamo da Id., Sucesivos escolios, cit., 30, sono <<recintos sociales en los cuales el individuo se puede mover sin coacción alguna>>, mentre <<la ‘Libertad’ … es principio metafísico en nombre del qual una secta pretende imponer a los demás sus ideales de conducta>>. V. anche Id., Escolios, cit., II, 201: <<la concentrazione del potere, nella società egualitaria, non permette di essere libero se non al titolare del potere supremo. La dispersione del potere nella società gerarchizzata, all’opposto, crea una piramide di libertà. La società egualitaria alterna epoche di paralisi schiavista con periodi di convulsioni libertarie. L’individuo della società gerarchizzata, all’inverso, non ha bisogno di ribellarsi per essere libero, né si avvilisce perché non si ribella>>.

(152). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 309. V. anche Id., Sucesivos escolios, cit., 30: <<donde desaparece hasta el vestigio de nexox feudales, la creciente soledad social del individuo y su creciente desamparo lo funden pronto en masa totalitaria>>.

(153). Per secoli, dalla cacciata dei Tarquini, del resto, la libertà era concepita in Roma proprio nel modo che N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 21, rifiuta, ritenendolo peculiare del democratico in cerca di adepti, ossia come <<compossesso del potere politico>>.

(154). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 31.

(155). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 42.

(156). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 113.

(157). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 134. Più in là, a p. 184, leggiamo: <<cierta manera de admirar a Grecia delata inmediatamente al tonto>>.

(158). Pure Gómez Dávila, dunque, ne era incantato. Lo si arguisce anche da questo scolio di Tra poche parole, cit., 205: <<uomo colto è chi riesce a sistemare, sulle colonne simmetriche del classicismo francese e del romanticismo tedesco, un architrave greco>>.

(159). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 49.

(160). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 129. V. anche Id., Nuevos escolios, cit., II, 45: <<del lapso de tiempo que separa la era aristocrática de la historia griega de su era democrática sobrevive sólo el recuerdo de las convulsiones sociales que propagó una epidemia mística>>.

(161). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 360.

(162). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 107.

(163). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 129.

(164). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 36.

(165). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 60. Scrive F. Cuena Boy, Inventario de cosas relativas a Roma en los escritos de Nicolás Gómez Dávila y breve exposición de algunas de ellas (è questo un lavoro in attesa di pubblicazione, presentato dall’autore il 16 maggio 2013 al congresso dedicato a <<Nicolás Gómez Dávila en su centenario>>, celebratosi all’Universidad de La Sabana in Colombia, che ho potuto leggere grazie alla cortesia del collega e amico), § 4: la plebe degli indigitamenta evocata dal sudamericano rimanda a <<los catálogos de dioses menores manejados por el Colegio de los Pontífices en la Roma pagana con el fin de asegurar la correción ritual del culto que se les rinde>>. M. Perfigli, ‘Indigitamenta’. Divinità funzionali e funzionalità divina nella religione romana, Pisa, 2004, 21, pone in risalto che i numerosissimi <<dei degli indigitamenta, chiamati ad assistere l’uomo in ogni momermto della sua esistenza, dal concepimento nel ventre materno alla morte, <<ci sono testimoniati per lo più dai padri della Chiesa, che nella loro feroce campagna antipagana, interessati a mettere in ridicolo la religione romana, li elencarono con fini polemici>>.

(166). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 152.

(167). Cfr. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., 60. Alla gravitas si riferisce anche Id., Tra poche parole, cit., 171: <<chi riduce le essenze storiche alle loro circostanze empiriche pecca contro la storia. La gravitas romana, per esempio, presuppone la storia di Roma, ma né l’economia, né l’organizzazione sociale, né la politica romane riescono a spiegarla. L’essenza storica sta al fatto come il colore all’onda. Come il verde non è un fenomeno elettromagnetico, la gravitas non è una struttura economico-sociale>>.

(168). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 59: <<le distanze tra nazioni, classi sociali, culture, razze sono poca cosa. La spaccatura corre tra la mentalità plebea e quella patrizia>>.

(169). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 103.

(170). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 391. La frase richiamata segue questa: <<l’individuo non si integra nella società quando pretendono di legarlo direttamente alla totalità sociale, ma quando egli vi è legato mediatamente, in una struttura piramidale, attraverso un gruppo immediato a sua volta legato ad altri gruppi>>.

(171). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 296.

(172). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 28. La giustizia inflessibile degli homines novi viene così contrapposta all’ingiustizia magnanima – probabilmente ben poco praticata nella realtà – degli aristocratici, un tempo predominanti nella classe alta, sottolinea F. Cuena Boy, Inventario, cit., § 5, che poi osserva: <<la denominación homines novi quiere aludir a los integrantes de la nueva ‘aristocracia del dinero’ (los equites) que, en la etapa de crisis de la respublica, se enfrenta a la tradicional nobilitas senatorial cuyo poder económico consiste principalmente en la riqueza inmobiliaria>>.

(173). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 70.

(174). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 30.

(175). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 11 s. V. anche Id., Inventario, cit., § 3.

(176). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 188.

(177). Cfr. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, cit., 171.

(178). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 109. La seconda parte dell’appunto è di difficile interpretazione. Nel tentativo di individuarne il significato attribuitovi dall’autore, F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 28, la mette in relazione con uno scolio che si trova a p. 63, concepito così: <<no debemos someter el caso a la norma, ni la norma al caso, sino desentrañar del caso su norma>>. E al proposito scrive: <<así pues, el caso (cada caso concreto) contiene dentro de sí su norma. La norma general no es la del caso; a lo sumo, la dialéctica entre caso y norma, entre norma y caso, conduce a ‘acertar’ la norma que conviene al caso, la norma entrañada en la solución justa de éste. Cabe pensar que algo semejante a esto es lo que quería decir Gómez Dávila cuando reprochaba a los ‘juristas cesáreos’ haberse olvidado de la posibilidad legal, ante el caso concreto, de despertar las reglas jurídicas de su sueño dogmático>>.

(179). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 25.

(180). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 328. Da ricordare qui sono due considerazioni che si rinvengono alle pp. 308 e 337: lo Stato, <<totalitario por esencia>>, tende spontaneamente alla forma del dispotismo illimitato; il giurista, del pari, <<tiende espontáneamente hacia el absolutismo>>.

(181). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 68. La frase riportata nel testo, conferma F. Cuena Boy, Inventario, cit., § 4, nt. 57, <<indica que Gómez Dávila asume la inspiración estoica de los juristas romanos en quanto al ius naturale>>.

(182). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 20.

(183). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 182.

(184). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 113.

(185). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 144: <<alcuni commettono l’errore di confondere ‘historicismo e historismo’. Il veleno e l’antidoto. O Hegel e Ranke. ‘Historicismo’ è quello di cui parla Popper; ‘historismo’ quello di cui parla Meinecke>>.

(186). Cfr. di nuovo N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 144.

(187). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 194. V. pure Id., Escolios, cit., II, 30: <<‘ser lo que somos’ es la supuesta obligación con que pretendemos eludir nuestras obligaciones genuinas. Nuestro deber no es la autenticidad ontológica del animal, sino la autenticidad axiológica>>.

(188). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 61.

(189). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., I, 131. V. anche Id., In margine a un testo implicito, cit., 91: <<identificare essere e valore è dimenticare il peccato originale>>.

(190). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 182.

(191). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 292. L’enunciato di p. 304, secondo cui <<in assiologia omnis determinatio est adfirmatio>>, va collegato con quello formulato in Id., Tra poche parole, cit., 142: <<valore è ciò che la volontà afferma, se la volontà che afferma è la volontà di Dio>>.

(192). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 273.

(193). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 93.

(194). Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios, cit., II, 397.

(195). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 194.

(196). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 13.

(197). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 77.

(198). Cfr. N. Gómez Dávila, Nuevos escolios, cit., II, 93.

(199). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 25, nt. 124.

(200). Cfr. N. Gómez Dávila, De iure, cit., 68.

(201). Cfr. F. Cuena Boy, Nicolás Gómez Dávila, cit., 16.

(202). Cfr. N. Gómez Dávila, Sucesivos escolios, cit., 12.

(203). Cfr. N. Gómez Dávila, Notas, rist., Bogotá, 2003, 151.

 
 
 

© PORTALDERECHO 2001-2025

Icono de conformidad con el Nivel Doble-A, de las Directrices de Accesibilidad para el Contenido Web 1.0 del W3C-WAI: abre una nueva ventana